NEOLIBERISMO, LA MALATTIA INCURABILE DELL’ITALIA?

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Questo articolo – di cui riportiamo la traduzione – aggiunge un interessante punto di vista all’analisi della situazione economica attuale in Italia.
L’articolo riflette sul fatto che l’austerità, portata avanti in Italia dal “blocco borghese” tra il 2011 e il 2018, sia stata uno strumento per il completamento della transizione del capitalismo italiano al modello neoliberale. Ora il modello neoliberale, fatto di tagli alla spesa pubblica, riduzione di garanzie sul lavoro e massicce privatizzazioni, riduce la capacità di reazione alla crisi in corso, e questo fa si che il dibattito politico sia interamente incentrato sulle modalità di finanziamento della spesa pubblica che la crisi rende indispensabile.
Questo finanziamento della spesa ad oggi può avvenire attraverso: la mutualizzazione del debito pubblico all’interno del UE – che presupporrebbe un cambio di visione dell’Europa, attraverso riforme istituzionali, che ad oggi sembra essere troppo lontana; i prestiti europei o capitalizzazioni di strumenti europei- con il rischio piuttosto alto di assoggettare le politiche pubbliche agli interessi dei creditori più che alle aspettative sociali italiane; la monetizzazione del debito pubblico attraverso la BCE.
La monetizzazione del debito in particolare, avviene attraverso l’acquisto di titoli di debito pubblico (i famosi BOT)  in cambio di liquidità. Sappiamo che la BCE può acquistare titoli di debito pubblico solo sul mercato secondario, cioè acquistandole da banche private. Nessuna banca ha l’obbligo di rivendere i titoli alla BCE, né tantomeno di reinvestire la liquidità della vendita di titoli per acquistarne di nuovi. Ora il settore bancario privato, tende a tutelare le rendite finanziarie e quindi potrebbe aumentare  il rischio di speculazioni. D’altra parte con una grossa quantità di debito pubblico italiano nelle mani della BCE, questa istituzione si troverebbe ad avere un enorme potere ricattatorio sulle politiche pubbliche italiane paragonabile a quella dei creditori dei prestiti, e significherebbe certamente l’impossibilità per il futuro italiano di deviare dal percorso stabilito dalla BCE.
Sono quindi le riforme strutturali, in un momento in cui è necessario avere una visione strategica del futuro, che dovrebbero  mobilitare le coscienze e inserirsi prepotentemente nel dibattito politico attuale.
(Maria D’Onofrio – EuThink)

NEOLIBERISMO, LA MALATTIA INCURABILE DELL’ITALIA?

Redazione di Le vent se lève – 20 aprile 2020


Il Presidente del Consiglio dei Ministri italiano Giuseppe Conte al Parlamento europeo nel 2019. © Unione Europea 2019 – Fonte: EP

Il Coronavirus colpisce un Paese indebolito da riforme strutturali che hanno organizzato l’economia e la società italiana sulla base di principi neoliberali. Il dibattito politico sta schivando la questione, così come la questione europea. Tuttavia, l’Italia non uscirà dalla crisi senza rompere con la logica neoliberale. Di Stefano Palombarini, docente all’Università di Parigi 8 e autore, con Bruno Amable, de L’illusion du bloc bourgeois (Raisons d’agir, 2017).

Primavera 2020: il coronavirus, che sta imperversando in tutto il mondo, sta colpendo l’Italia con particolare violenza, con conseguenze sull’economia e sulla struttura produttiva del Paese impossibili da misurare per il momento, ma indubbiamente catastrofiche. L’opinione pubblica si sta rivoltando massicciamente contro l’UE. In un sondaggio condotto a fine marzo 2020 [1], solo il 49% degli intervistati si è dichiarato “europeista”, contro il 64% prima dell’inizio dell’epidemia; il 72% ritiene che l’UE non abbia fornito alcun aiuto di fronte alla crisi, e il 77% pensa che il rapporto tra Italia e UE sia destinato a rimanere conflittuale. Il 26 marzo il Primo Ministro Conte si rifiuta di firmare le conclusioni del Consiglio europeo convocato per elaborare una risposta comune alle difficoltà economiche causate dalla crisi sanitaria.
Nonostante l’annuncio di un piano di sostegno europeo di 500 miliardi di euro il 9 aprile, l’Unione Europea è ancora alla ricerca di ulteriori mezzi per far fronte alle spese generate dalla crisi economica che sta iniziando. Ci si chiede cosa stia succedendo in Italia, uno dei sei firmatari del Trattato di Roma, che fino a pochi anni fa era quasi unanimemente a favore dell’integrazione europea.

DALLA FORMAZIONE DEL BLOCCO BORGHESE ALLA SUA SCONFITTA

Per capire, dobbiamo prima di tutto tornare a una giornata dell’estate 2011, il 5 agosto per essere precisi.

In tale data, il Presidente della BCE (Jean-Claude Trichet) e il suo successore designato (Mario Draghi) firmano insieme una lettera al governo italiano, che detta la politica economica da seguire se si vuole beneficiare di una politica monetaria accomodante, necessaria per evitare l’impennata dei tassi di interesse sul debito pubblico.

La lettera elenca una serie di “riforme strutturali” relative alla flessibilità del mercato del lavoro, alla privatizzazione dei servizi pubblici e alla riduzione della protezione sociale.

Risuona nel progetto di una parte delle classi dirigenti italiane, che da tempo vogliono liberarsi della “vecchia spaccatura” tra destra e sinistra, e riunire in un’unica alleanza tutti gli attori responsabili e ragionevoli: cioè tutti coloro che sono a favore del perseguimento delle riforme neoliberali.

Il 23 ottobre dello stesso anno, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno mostrato apertamente, in una conferenza stampa divenuta famosa, la loro sfiducia nella capacità del governo Berlusconi di attuare queste riforme e di ridurre il debito pubblico; il 12 novembre Berlusconi ha presentato le dimissioni e solo quattro giorni dopo Mario Monti ha preso il suo posto, alla guida di un governo tecnico il cui programma prevedeva le misure richieste nella lettera di Trichet e Draghi.

Nasce il blocco borghese, e sarà l’alleanza al potere dal 2011 fino alle elezioni del marzo 2018 con i governi guidati successivamente da Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.

Abbiamo chiamato questa nuova alleanza il “blocco borghese”[2] perché aveva l’ambizione di riunire le classi medie e superiori precedentemente separate dalla divisione destra/sinistra. Le classi lavoratrici sono state escluse per scelta programmatica, per così dire, dallo scambio politico tra sostegno e politiche pubbliche. Ma le classi medie sono state rese precarie e fragili dall’azione del blocco borghese, il cui perimetro è stato gradualmente ridotto ai soli gruppi privilegiati. Per spiegare questa dinamica, viene citata più spesso l’austerità richiesta da Bruxelles, che si è effettivamente tradotta in una serie di misure socialmente molto pesanti. È in lacrime che il ministro Fornero ha presentato il “sacrificio necessario” della riforma delle pensioni che aveva appena firmato nel dicembre 2011. Ma sarebbe sbagliato ridurre l’azione del blocco borghese a una politica di austerità volta a ridurre il debito pubblico. Le modifiche apportate al Codice del lavoro, e in particolare alla legge sul lavoro, il provvedimento di punta del governo Renzi, che mirava a una maggiore “flessibilità” del rapporto salariale, non si spiegano con considerazioni di bilancio e sono indicative della reale strategia del blocco borghese: l’austerità era uno strumento al servizio di un progetto più ambizioso, cioè il completamento della transizione del capitalismo italiano al modello neoliberale. Una transizione già ben avviata dai governi di destra e di “centro-sinistra” che si sono alternati al potere a partire dagli anni Novanta, ma che il blocco borghese ha portato al suo definitivo compimento.
L’azione “riformatrice” dei governi nel periodo 2011-2018 ha fortemente penalizzato le classi lavoratrici, ma ha anche prodotto un crescente impoverimento e precarietà delle classi medie, che mancava al blocco borghese, provocandone il crollo. Non è necessario dettagliare tutti i risultati elettorali per misurare la violenza della caduta: basta evocare il destino dei quattro primi ministri espresso da questa alleanza sociale. Mario Monti aveva fondato un partito, Scelta Civica, nel 2013, che ha cessato di esistere dopo essere sceso a meno dell’1% dei voti e non aver ottenuto un solo rappresentante eletto alle elezioni legislative del 2018. Il suo successore a capo del governo, Enrico Letta, si è ritirato (temporaneamente?) dalla vita politica e insegna a Sciences Po Paris. Matteo Renzi, che aveva spodestato Letta dal governo per prendere il suo posto, non è più, come allora, il dominus di un Partito Democratico che ha lasciato dopo essersi trovato in una posizione di minoranza; il movimento da lui formato, Italia Viva, è ora accreditato dalle urne con circa il 2% dei voti. Paolo Gentiloni, dal canto suo, è stato nominato commissario europeo e si è così relativamente allontanato dalla lotta politica italiana.

LA LEGA E I 5 STELLE: OPPOSITORI DEL BLOCCO BORGHESE, MA NON DEL NEOLIBERISMO

Il crollo del blocco borghese è andato a beneficio degli unici due movimenti che vi si erano opposti. Il Movimento 5 stelle, che non si era mai presentato alle elezioni nazionali, ha ottenuto il 23% dei voti nel 2013, ed è stato il principale partito italiano nel 2018 (32,7%). La Lega, dal canto suo, è passata dal 4% nel 2013 al 17% nel 2018, per raggiungere il 34% alle elezioni europee dell’anno successivo.
Per avere un’idea più chiara del panorama politico italiano, è importante sottolineare che entrambi i partiti hanno combattuto contro il blocco borghese, ma senza fare delle riforme neoliberali il motivo principale della loro opposizione. Questo vale soprattutto per la Lega, erede di un elettorato di centro-destra precedentemente sedotto da Berlusconi e dalle sue promesse di arricchimento individuale alla portata di tutti in una società libera dal peso dell’intervento statale. In una situazione di impoverimento generalizzato delle classi lavoratrici e medie, Salvini si è concentrato a spiegare che se le promesse del libero mercato non sono state mantenute, è a causa di un nemico esterno la cui identità è cambiata nel tempo: la finanza globalizzata, la burocrazia di Bruxelles, i migranti (eh sì, soprattutto e spesso i migranti), e ora la Germania. Le spettacolari svolte di Salvini su temi fondamentali come l’adesione dell’Italia all’Unione Europea e l’euro (su cui, nell’arco di tre anni, ha mostrato praticamente ogni possibile posizione) non nascondono, agli occhi del suo elettorato, la coerenza di una posizione che attribuisce a un nemico esterno l’intera responsabilità delle difficoltà dell’Italia: la “sovranità” della Lega non è altro che la ripetuta dichiarazione della necessità di una difesa nazionale contro questo nemico, mutevole e a volte totalmente immaginaria. Lo stesso Salvini, inoltre, mostra una fede incrollabile nella teoria del trickle-down (gli utili di oggi sono gli investimenti di domani e il lavoro di dopodomani), e al centro del programma della Lega c’è ancora oggi, nel bel mezzo di una crisi economica e sociale, la flat tax, cioè la rinuncia ad ogni funzione redistributiva della tassazione e di ogni finanziamento fiscale della nuova spesa pubblica.
Sulle riforme neoliberali, la posizione dei 5 Stelle è in realtà più ambigua. La volontà di difendere i servizi pubblici e la lotta al lavoro precario erano molto presenti nei primi anni di vita del movimento, ma lo era allo stesso tempo un tema anti-élite che ben presto si è confuso con un atteggiamento antistatale. Né di destra né di sinistra, ostili alle logiche di mercato, ma anche all’intervento pubblico nell’economia, i 5 Stelle non sono stati in realtà in grado di sviluppare una vera e propria strategia: durante il governo giallo-verde che li ha visti alleati con la Lega, è stato Salvini a dimostrare, senza troppe difficoltà, l’egemonia.
Così, quando hanno governato insieme, da giugno 2018 a settembre 2019, la Lega e i 5 Stelle non sono tornati indietro su nessuna delle riforme neoliberali del periodo precedente. Anche la legge sulle pensioni di Fornero e il Jobs Act di Renzi, le misure più controverse del blocco borghese, sono state modificate solo marginalmente.

IL DEBITO: UN’OSSESSIONE CHE CI IMPEDISCE DI PENSARE

L’epidemia di coronavirus sta quindi colpendo un paese che si trova in una situazione paradossale. Il capitalismo italiano è ormai pienamente organizzato secondo una logica neoliberale, che riduce notevolmente la capacità di reazione alla crisi. I tagli alla spesa sanitaria, 37 miliardi negli ultimi dieci anni [4], così come la forte riduzione del ruolo della sanità pubblica a favore del settore privato, stanno ostacolando la capacità di assistenza ai malati. La diffusione dell’insicurezza del lavoro e la debolezza del sistema di indennità di disoccupazione espongono il mondo del lavoro in modo molto diretto alle conseguenze della crisi. Il declino della grande industria a favore delle piccole e medie imprese aumenta la possibilità di fallimenti. Le massicce privatizzazioni avvenute negli ultimi trent’anni impediscono una vera e propria politica industriale volta a sostenere la produzione. Il coronavirus sta dolorosamente dimostrando quanto le riforme neoliberali stiano indebolendo la società italiana. Ma, ed è questo il paradosso, ancora oggi queste riforme rimangono sullo sfondo del dibattito politico, che è interamente incentrato sulle modalità di finanziamento della spesa pubblica che la crisi rende indispensabile. Certo, in Italia sorgeranno con urgenza problemi finanziari e monetari, ma è comunque impressionante vedere come il rapporto salariale, la protezione sociale, i servizi pubblici, la possibilità di una politica industriale, tutti ambiti istituzionali che avranno un ruolo decisivo nella crisi, rimangano assenti dal dibattito. Il motivo è semplice: i principali partiti italiani, sia di governo che di opposizione, non hanno proposte chiare da fare su questi temi. Il Partito democratico, dopo la scissione di Renzi, è riluttante ad intraprendere una vera e propria valutazione critica del periodo del blocco borghese, e tiene in mezzo a sé una componente importante che rivendica i meriti delle riforme neoliberali. I 5 stelle, che dal settembre 2019 formano la coalizione di governo con il Partito Democratico, mostrano ancora oggi una linea che non è né di destra né di sinistra, che si riflette concretamente nell’assoluta assenza di visione strategica. E la Lega, che rimane profondamente radicata nell’ideologia neoliberale, ha tutto l’interesse a strutturare il conflitto politico su altre questioni.
Il dibattito italiano ruota quindi attorno a un unico tema: il finanziamento di un debito destinato a crescere di diverse decine di punti di PIL. Si tratta, ovviamente, di un problema molto importante e urgente. Ma anche quando affrontano questo tema, la politica e la società italiana sembrano più condizionate dai traumi del passato che da una visione strategica per il futuro. Prendiamo prima la misura del problema. Un calo dell’attività che può essere stimato, senza catastrofismo, intorno al 10% del PIL, comporterebbe meccanicamente un calo delle entrate dello Stato di circa 90 miliardi di euro. Prima della crisi, il deficit programmato era di 20 miliardi; e dobbiamo anche considerare le misure fiscali che la crisi renderà necessarie. All’inizio di aprile il governo italiano aveva già mobilitato 50 miliardi, ma queste sono solo le prime misure estremamente urgenti. Anche se è ovviamente troppo presto per fare una stima precisa, possiamo quindi immaginare che si tratti di trovare nuovi finanziamenti per un importo compreso tra i 200 e i 300 miliardi di euro. A ciò si aggiunge la necessità di rinnovare i titoli in scadenza di un debito pubblico che, prima della crisi, superava i 2400 miliardi di euro; e questo rinnovo potrebbe rappresentare un problema per un Paese in piena recessione.

SENZA LA BCE, NESSUNA SALVEZZA?

Il finanziamento del debito è quindi destinato a diventare un vero e proprio problema. Tra le possibili soluzioni, va menzionata la mutualizzazione del debito pubblico all’interno dell’Unione Europea, sogno ricorrente dei più convinti europeisti perché implicherebbe un salto decisivo verso una vera e propria unione politica: ma non c’è nulla, né nella storia passata dell’UE né nelle attuali dinamiche politiche dei Paesi del Nord, che suggerisca che un tale scenario di soluzione possa avere una possibilità di essere tradotto in realtà.
La seconda possibilità è un prestito europeo soggetto a condizioni che si tradurrebbe, una volta superata la crisi, in politiche pubbliche che rispondano più agli interessi dei creditori che alle aspettative sociali italiane. Sappiamo, ad esempio, che il Meccanismo europeo di stabilità (MES) ha la possibilità di raccogliere fondi fino all’importo teorico di 700 miliardi, ma si possono prevedere anche altri meccanismi istituzionali per ottenere lo stesso risultato. Tuttavia, una tale ipotesi incontra una forte resistenza in un Paese segnato dagli anni del blocco borghese. Solo la frazione del Partito democratico che rivendica come positiva l’esperienza dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni sarebbe pronta a sostenere una soluzione che consisterebbe nel prolungare la dinamica politica degli ultimi dieci anni. Per lo stesso motivo, i 5 Stelle e la Lega, che hanno costruito la loro base elettorale opponendosi all’azione pubblica che soddisfa i “requisiti” europei, sono totalmente contrari. Soprattutto, gran parte della classe media e della classe operaia italiana vivrebbe un programma di aggiustamento macroeconomico e di cambiamento istituzionale dettato dalle istituzioni europee, come prolungamento di un incubo che pensavano fosse appena finito.
La natura altamente improbabile della prima soluzione, e il rifiuto molto ampio della seconda, spiegano il quasi consenso generato da una terza possibilità: quella di un debito pubblico in gran parte finanziato dalla creazione di moneta della BCE. Una soluzione che presenta evidenti vantaggi, soprattutto in assenza dei limiti dei finanziamenti a basso interesse, ma anche svantaggi che, stranamente, nessuno, dall’estrema destra a ciò che resta della sinistra radicale, menziona in Italia.

Questi inconvenienti sono di due tipi.

In primo luogo, come sappiamo, la BCE può acquistare titoli di debito pubblico solo sul mercato secondario. È vero che, dal punto di vista dell’impatto sullo spread che pesa sui tassi di interesse, questo tipo di intervento equivale praticamente ad un acquisto di titoli in emissione. Resta il fatto che la liquidità emessa dalla BCE viene recuperata direttamente dagli agenti privati che detengono i titoli, ovvero principalmente banche e fondi di investimento, che sono certamente tra i grandi vincitori dell’operazione e che non hanno l’obbligo di utilizzare tutta la nuova liquidità per acquistare nuovi titoli. Al contrario, l’esperienza dimostra che parte della liquidità creata dalla BCE sarà utilizzata per investimenti borsistici che probabilmente sosterranno artificialmente i prezzi penalizzati dal calo dell’attività globale, alimentando così bolle speculative e aumentando il rischio di future crisi finanziarie.
Il secondo tipo di svantaggio causato dai finanziamenti della BCE riguarda più direttamente l’Italia. Un prestito soggetto a condizioni, come quello che potrebbe venire dal MES, incontra una resistenza molto ampia e comprensibile nella politica e nella società italiana. Ma un debito pubblico in gran parte nelle mani della BCE dovrebbe provocare lo stesso tipo di reazione, mentre, stranamente, questo non è affatto il caso nel dibattito italiano. Certo, possiamo sempre sperare che la BCE rimanga nel suo ruolo istituzionale e non affermi mai l’enorme potere politico che le verrebbe conferito dal suo ruolo di principale creditore dello Stato italiano; ma anche in questo caso l’esperienza dice il contrario.
Gli italiani hanno dimenticato della Banca centrale? Finanziare il debito italiano attraverso la creazione che la suddetta lettera, che ha aperto le porte del governo al blocco borghese, non è stata firmata né dalla Commissione europea né dai primi ministri del Nord Europa, ma da due direttori monetaria della BCE significa che, in futuro, sarà impossibile per qualsiasi governo italiano deviare dal percorso stabilito dalla BCE, pena la chiusura del rubinetto monetario e l’esplosione dei tassi di interesse. Questa condizionalità è implicita, e quindi politicamente più facile da accettare rispetto a un elenco di condizioni stabilite esplicitamente; ma proprio perché è implicita, sfugge completamente a qualsiasi controllo democratico e a qualsiasi processo di negoziazione. Più facile da convalidare politicamente, e più immediatamente accessibile, la soluzione di un finanziamento della BCE pone lo stesso tipo di vincoli di un prestito concesso da altri paesi europei attraverso il MES o altre istituzioni comunitarie. Le cose sarebbero ovviamente diverse se la BCE, invece di godere di una totale indipendenza, fosse soggetta al controllo politico di un ipotetico governo europeo; ma questo è uno scenario più fantascientifico che reale, ancor più che la mutualizzazione del debito.

USCIRE DALL’EURO, MA COME?

Poiché le soluzioni comunitarie al problema del finanziamento del debito sono insoddisfacenti, resta da vedere se l’Italia potrà uscire dall’euro riacquistando la sovranità monetaria. Va detto, però, che nessuna forza politica italiana ha finora lavorato seriamente in questa direzione. La Lega ha l’abitudine di sollevare questa ipotesi quando le scadenze elettorali si avvicinano, per passare a posizioni molto diverse quando si tratta di governare. Si ricorderà che dopo la formazione del governo giallo-verde nel 2018, Salvini, che aveva fatto campagna elettorale su Italexit, ha dichiarato in più occasioni di aver “cambiato idea” sull’euro. E oggi, in risposta alla crisi, è chiara la sua disponibilità a partecipare a un governo di unità nazionale che potrebbe essere guidato da … Mario Draghi. È vero che, a volte, la Lega ama evocare lo scenario di una sovranità monetaria che permetta un generale abbassamento delle tasse e un ritorno alla crescita, che corrisponde al sogno più profondo di una parte della sua base elettorale: rinnovare le promesse di una concorrenza libera e non falsata portando arricchimento individuale. Ma nel blocco sociale rappresentato dalla Lega, la piccola e media impresa del nord del Paese occupa una posizione assolutamente centrale; fortemente integrata con l’area economica tedesca, rifiuta ogni ipotesi di rottura per paura di ritorsioni commerciali. In passato, anche i 5 stelle sono stati favorevoli a un’uscita dall’euro: ma, come la Lega, ora sperano di poter “cambiare l’UE dall’interno“. Un obiettivo condiviso dal Partito Democratico, il più europeista dei partiti italiani, che produce una convergenza abbastanza forte e rende improbabile un’uscita deliberata dall’euro.
Va anche aggiunto che uscire nel bel mezzo di una recessione avrebbe conseguenze economiche molto pesanti. In caso di riacquisizione della sovranità monetaria, la massiccia monetizzazione del debito pubblico che sarebbe necessaria per affrontare la crisi comporterebbe una forte svalutazione della nuova moneta. Il rischio di una tale svalutazione sarebbe incorporato nei tassi di interesse, creando così un circolo vizioso tra l’aumento dei tassi, la necessità di monetizzare successivamente il debito e l’ulteriore svalutazione, che solo la ristrutturazione del debito potrebbe fermare. Ma nessun attore politico italiano osa menzionare l’utilità della ristrutturazione del debito e della nazionalizzazione del settore bancario che necessariamente l’accompagnerebbe.
La fiducia degli investitori nella sostenibilità del debito italiano, e quindi la possibilità di gestire un’uscita ordinata dall’euro, sarebbe più forte nei periodi di crescita, ma questo è quello che potremmo chiamare il paradosso dell’euro: quando l’economia va bene, uscire sarebbe più semplice, ma nessuno ci pensa; quando l’economia non va bene, gli effetti benefici della sovranità monetaria diventano più chiari, ma uscire diventa molto più complicato.

IL RUOLO DELLA SINISTRA ITALIANA, SE CE NE FOSSE UNO

Nessuno degli scenari possibili sembra quindi rappresentare una soluzione realistica e politicamente valida per l’Italia. Alcuni presupposti, come la mutualizzazione del debito pubblico o la messa sotto controllo democratico della BCE, presuppongono riforme istituzionali che in realtà non sembrano essere all’orizzonte. Il finanziamento attraverso un prestito europeo ha lo scopo di provocare rapide e fortissime reazioni politiche ostili; reazioni che si manifesteranno anche, in un futuro non troppo lontano, non appena la BCE deciderà di affermare il potere politico che sta accumulando attraverso il finanziamento del debito attraverso la creazione monetaria. Per questi motivi, non è troppo azzardato prevedere che il già diffuso sentimento di disincanto nei confronti dell’UE si diffonderà ulteriormente in Italia nel prossimo futuro.
In questa complicata situazione politica, il compito della sinistra dovrebbe essere quello di orientare nuovamente il dibattito sul tema delle riforme strutturali che hanno segnato il Paese negli ultimi decenni e che sono alla radice delle attuali difficoltà. È in questa direzione che va indirizzato il sentimento di ostilità verso l’UE, destinato comunque a crescere, sottolineando il ruolo che la costruzione europea ha svolto nella transizione del capitalismo italiano verso il modello neoliberale. Una tale posizione porterebbe inevitabilmente la sinistra a difendere il ritorno alla sovranità monetaria, che assumerebbe un significato specifico nel quadro di un più generale programma di rottura con il neoliberismo. Un programma di questo tipo segnerà chiaramente la distanza dalla destra nazionalista, che sarà probabilmente la grande vincitrice nel prossimo periodo. La destra nazionalista presenterà (e sta già presentando) il controllo della creazione monetaria come lo strumento che ci permetterà di uscire dalla crisi continuando ad abbassare le tasse sul capitale e a ridurre la funzione redistributiva della tassazione, preservando la flessibilità del mercato del lavoro. Per la sinistra, la sovranità monetaria deve essere messa al servizio di obiettivi strettamente opposti: nessuna ambiguità, nessuna simpatia, e ancor meno qualsiasi fronte comune è possibile con la destra nazionalista, destinata a sostituire il blocco borghese nel ruolo di principale sostegno politico del neoliberismo.

Speriamo solo che una tale sinistra possa ancora una volta esistere nel panorama politico italiano.

1] “Il sondaggio: fiducia in Ue crolla anche fra europeisti”, AdnKronos, 29/3/2020
2] Amable, Guillaud, Palombarini, L’Économie politique du néolibéralisme. Le cas de la France et de l’Italie, Editions Rue d’Ulm, Parigi, 2012.
3] Palombarini, “Il liberismo autoritario”, Jacobin Italia, 25/7/2019.
4] “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”, Report Osservatorio GIMBE, n. 7/2019.

(l’articolo di Stefano Palombarini è uscito sulla rivista online Le Vent Se Lève   https://lvsl.fr/le-neoliberalisme-maladie-incurable-de-litalie/. Stefano Palombarini è un economista membro del gruppo di ricerca “Economie Politique et Institutions” all’Università Paris 8 – Vincennes – Saint-Denis. Traduzione di Massimo Marcolin)

 


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